La corte d’Appello di Reggio Calabria ha pubblicato le motivazioni di secondo grado della sentenza del processo “Xenia” nato un’inchiesta della guardia di finanza sulle presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel Comune di Riace.
Lo scorso ottobre il procedimento si è concluso con la condanna, solo per un falso, dell’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a 18 mesi di reclusione, con pena sospesa, ribaltando la decisione del Tribunale di Locri che, nel 2021, lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere. Lucano era accusato di diversi reati.
Il più grave era quello di essere il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas.
LE MOTIVAZIONI
«L’ampia istruttoria – scrivono i giudici – non ha offerto elementi per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa» e «i dialoghi intercettati in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico suggeriscono di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio “arrembaggi” alle risorse pubbliche. Più in particolare non si condivide il contrario assunto del tribunale, che nell’offrire la propria chiave di lettura degli elementi di prova, ha fatto riferimento ad una logica predatoria delle risorse pubbliche, ad appetiti di natura personale, a meccanismi illeciti e perversi fondati sulla cupidigia e sull’avidità; ciò al fine di delineare la personalità del Lucano, di cui escludeva qualsiasi connotazione altruistica, nei fatti sacrificata agli appetiti di chi poteva fare incetta di quella somme senza alcuna forma di pudore. Il contesto in cui ha sempre operato, caratterizzato da un continuo afflusso di migranti, l’assoluta mancanza di qualsivoglia fine di profitto, l’indiscutibile intento solidaristico, gli sforzi per portare avanti la propria idea di accoglienza (nelle sue stesse parole, io devo avere uno sguardo più alto) siano indicatori meritevoli di considerazione, per adeguare il trattamento sanzionatorio in senso a lui più favorevole, anche in questo caso riconoscendo l’equivalenza tra attenuanti ed aggravanti. Che il Lucano mai avesse (neppure) pensato di guadagnare sui rifugiati è circostanza emersa anche in un ulteriore dialogo, in cui egli stesso sottolineava come, proprio grazie al suo intervento, altre persone avevano cambiato approccio, ponendosi verso la tematica dell’accoglienza senza alcuna finalità predatoria. Può seriamente dubitarsi dell’esistenza di un vantaggio patrimoniale» collegato ai migranti lungopermanenti che rimanevano a Riace anche dopo il periodo di collocazione nei progetti Cas e Sprar: c’era la piena consapevolezza da parte del Servizio centrale e della Prefettura, della presenza dei cosiddetti lungopermanenti che, se ci fossero stati i presupposti di legge andavano al limite espulsi con provvedimento di competenza prefettizia e non certo del sindaco».
Riguardo alle risorse pubbliche, scrivono ancora i giudici, «nel commentare il mancato riconoscimento, da parte della prefettura, di alcune voci di costo del progetto CAS, Lucano Domenico sottolineava come ciò avrebbe danneggiato i più deboli, non certo le associazioni. Per la truffa aggravata manca la prova degli elementi costitutivi il reato mentre le determine per le quali Lucano era accusato di falso ideologico in realtà non erano funzionali a ottenere le somme del Ministero. Lo stesso vale per la contestazione di peculato, un reato che non è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato».
IL POST DI LUCANO